14 aprile 2013

Antonio Pennacchi, Palude.

Dovunque leggiate, di Pennacchi e dei suoi libri leggerete sempre un gran bene. Lo scrittore popolare, l'operaio riscattato, il narratore avvincente, l'autore di affreschi della nostra storia contemporanea. Per carità, è tutto vero, e pure io ho amato molto Canale Mussolini, lo stile colloquiale, l'invenzione (o la descrizione) dei personaggi. 
Scorrere le pagine di Palude è stato però un continuo déjà vu -- vuoi per l'ambientazione geografica nell'Agro Pontino, vuoi per la collocazione storica tra il fascismo e il dopoguerra, vuoi per i personaggi forti e ingombranti.
In effetti Pennacchi ha rimesso mano a questo romanzo, ripubblicandolo, dopo il successo di Canale Mussolini. Inevitabile l'osmosi tra le due opere.
Ma se la prima parte di Palude è coinvolgente e non di rado ironica, la seconda parte si trascina con stanchezza, in un'allegoria di fantasmi più lunga del necessario. Ma alla fine è un libro che lascia moderatamente soddisfatti per come ci restituisce lo sguardo sulla nascita di una nazione vista dal basso, da chi l'ha fatta con il lavoro e l'obbedienza, e per l'innegabile creatività con cui l'autore ha dato vita ai personaggi del romanzo. 
A chi vuole approfondire, suggerisco la lettura di questa recensione di Mario Grossi, un commento equilibrato e condivisibile.

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